Il suono di una risata contagiosa
Mamma Lina ci racconta del suo piccolo EdoardoMio figlio è felice. Il che, da mamma, credo sia la cosa più importante. Ha quasi sei anni, Edoardo, ed ha la risata più contagiosa del mondo. Quella delle pubblicità, quella che quando la senti non puoi non ridere.
Un inizio difficile
All’inizio non riuscivo a concentrarmi neanche su quella. All’inizio era solo:” Perché a lui? Perché a noi?”. La disabilità arriva come un tornado e travolge tutto, mandando in frantumi anche ciò che ti è sempre parso solido e indistruttibile. Si mette in mezzo ai tuoi rapporti, ai tuoi interessi, alla tua storia d’amore, mettendo tutto – te, prima del resto – in discussione. Non sei pronta a quella verità, non sai nemmeno come si fa ad esserlo. Ti parlano di DNA, esami, fisioterapie, psicomotricità… e tu nemmeno sai se ce la farai ancora a respirare. Eppure, improvvisamente, un giorno, da quel pantano riemergi. Non so dire come, ma so dire perché.
Come trasformarlo in un’opportunità
Puoi affrontare questa cosa in due modi, nessuna delle quali è giusta o sbagliata, è solo questione di scelta: o ti piangi addosso o tenti di trasformare in opportunità quello che è capitato. Avrei voluto anche io il figlio “perfetto”, quello che raggiunge le tappe dello sviluppo nei tempi dei manuali di pediatria, da portare in piscina o a teatro anziché tutti i giorni a qualche terapia. Ma non sarebbe stato Edoardo. Ed è tutto lì il segreto, ammesso che ne esista uno. A quel punto il “Perché?” si trasforma in “Perché no?”. La cosa che oggi mi fa sorridere è che la maggior parte della gente che ci incontra e magari non ci conosce o ci conosce poco, si aspetta di vederci infelici perché beh, insomma, “Poveri, hanno un bimbo disabile”.
Siamo davvero felici
Invece, rullo di tamburi, siamo felici! Abbiamo una normalità diversa dagli altri, ma diverso significa solo non conforme, e non infelice. Certo, non sempre è facile: avremmo preferito anche noi una vita più semplice o, come si dice, “normale”. Ma ci è capitata questa e non ne abbiamo un’altra, non c’è il piano B. È un lavoro di squadra quello di chi ha bambini disabili: da portare avanti con i medici, i terapisti, la scuola e, soprattutto, la famiglia. È però necessario prendersi cura di sé. Non si può fare il bene dei propri figli se non si è in grado di volersi bene, di perdonarsi e di guardare oltre. Quindi abbiamo deciso di non accontentarci della linea dell’orizzonte. Vogliamo che Edoardo abbia le stesse possibilità degli altri.
Acquisire nuove consapevolezze
La nostra è tutt’oggi una storia non risolta- non abbiamo una diagnosi- ma che ha risolto noi. Arrivare a questa consapevolezza è stato un percorso in salita, fatto di lacrime e notti insonni, e ogni tanto ancora l’equilibrio vacilla. Ma a chi non succede? Semplicemente, da qualche parte bisogna ricominciare.
Mio figlio è felice. Noi, siamo ripartiti da qui.