La povertà vista con gli occhi dei volontari e delle volontarie

Da dizionario, povertà designa la «condizione di chi si trova in grandi difficoltà economiche» ed è così che spesso la intendiamo: come un parametro misurabile, quantificabile. L’esperienza ci insegna, però, che la povertà non intacca soltanto il portafoglio, ma crea solitudine, toglie la dignità, umilia, esclude, emargina…; che, insomma, la questione riguarda l’uomo, oltre che le cose materiali a sua disposizione.
La conseguenza è chiara: la risposta a questo problema non può rimanere sul piano delle cose, ma deve spingersi fino all’incontro con la persona. È questa la consapevolezza che accompagna il nostro tentativo quotidiano di alleviare la povertà (o, per meglio dire, le povertà) dei tanti ospiti che passano nella mensa di Antoniano ogni giorno. Continuamente sperimentiamo che un piatto caldo (e buono) può davvero essere occasione di incontro, di relazione, di cura: e se davvero la povertà coinvolge ad un tempo il piano materiale e il piano esistenziale, siamo convinti che altrettanto possa fare il suo antidoto più efficace, l’amore, che a partire da un piccolo gesto materiale può riaccendere speranza, ridare dignità, sollevare dalle sofferenze, confortare e restituire un futuro.
Edoardo, volontario
Una delle prime parole che vengono in mente parlando della mensa dell’Antoniano è, probabilmente, “povertà”. Non solo la povertà di chi non ha i soldi per procurarsi da mangiare o pagarsi un letto (di un appartamento, neanche a parlarne).
Sempre più spesso, vediamo “poveri in spirito”: persone scappate di casa molti anni fa e che nessuno ha più cercato; padri che, dopo il fallimento di una relazione, faticano a vedere i loro bambini, che abitano in un’altra città; profughi scappati dalla propria nazione, vittime incolpevoli di guerre senza senso.
Confrontandoci con tutte queste manifestazioni di povertà, impariamo a relativizzare i nostri problemi e a essere grati di vivere in condizione di pace e di relativo benessere.
Michele, volontario
La povertà dal punto di vista terapeutico

Spesso povertà e ricchezza sono considerate come due mondi separati, due poli opposti, gli estremi della curva gaussiana del benessere. Io le considero, invece, due facce della stessa medaglia. Così come testa e croce si confondono tra loro quando una moneta vien fatta roteare vorticosamente, lo stesso accade con povertà e ricchezza: nei complessi movimenti delle vicende umane si confondono tra loro e coesistono, abitano lo stesso posto e lo stesso tempo.
Vi racconto alcune recenti esperienze per spiegare meglio questo pensiero.
Un paio di settimane fa ho partecipato ad un incontro con le insegnanti e la dirigente di una scuola Secondaria di primo grado (le vecchie Medie, per intenderci), per un confronto sulla situazione di G., un bambino che presenta un Disturbo dello spettro autistico di grado grave. All’incontro hanno partecipato anche i genitori di G.
L’ordine del giorno erano le crisi comportamentali del bambino, crisi di difficile gestione da parte delle insegnanti. Sono situazioni molto importanti, in cui G. si arrampica dappertutto e butta tutto all’aria, mettendo in pericolo se stesso e gli altri.
Nonostante la terapia ABA di cui gode il bambino (con le migliori terapiste che io conosca), nonostante numerosi tentativi della scuola di creare delle situazioni più tranquille e favorevoli, nonostante la terapia farmacologica che ho inserito qualche mese fa, questi comportamenti continuano ad aumentare di giorno in giorno e la dirigente ha più volte chiamato i genitori per far venire a prendere il figlio a scuola.
Vi anticipo subito che la situazione è in parte migliorata dall’incontro ad oggi, ma offre lo spunto per una riflessione.
Qui si intrecciano molte povertà. La prima è la mia, che condivido con le migliaia di medici e professionisti che seguono bambini con gravi disturbi comportamentali: abbiano poche risorse terapeutiche. Ci sono, sicuramente, ma sono ancora insufficienti in molte situazioni. Sappiamo ancora troppo poco sull’autismo. La scienza, pur con notevoli passi in avanti, è ancora povera di informazioni che possono essere tradotte in risorse terapeutiche. Lo dico da clinico che si occupa di ricerca: l’approfondimento delle basi biologiche dell’autismo ha gettato una nuova luce su questa condizione, ma abbiamo illuminato solo l’entrata di un palazzo, molto altro deve essere fatto (qui si potrebbe aprire la dolorosa ferita della povertà dei fondi dedicati alla ricerca e dei mille problemi burocratici che rallentano le sperimentazioni cliniche, ma ci porterebbe troppo lontano, anche se senza dubbio è una delle cause della scarsità di risorse terapeutiche).
La seconda povertà è quella della scuola. Povertà di personale formato, di strutture idonee all’interno dell’edificio scolastico, povertà anche di idee innovative (che, anche quando presenti, vengono spesso bloccate da rigide applicazioni dei regolamenti). Nel mondo della scuola ci sono migliaia di persone che lavorano sodo e che sputano l’anima ben oltre l’orario scolastico. E’ a queste e a questi insegnanti che dedico il paragrafo della povertà della scuola: loro sono la ricchezza che le fa da contraltare.
La terza povertà è quella dei genitori, che si vedono costretti ad allontanarsi dal posto di lavoro (e non sempre è possibile con facilità) e a gestire spesso da soli le crisi del figlio.
Con i genitori non sempre è facile collaborare assieme, perché spesso si creano dei muri e delle incomprensioni a volte difficili da abbattere. Quando però si rema tutti dalla stessa parte, che vuol dire anche venirsi incontro reciprocamente e avere fiducia gli uni degli altri, condividendo un preciso e dettagliato piano terapeutico, i frutti si raccolgono in modo evidente. Questa è la ricchezza del lavoro di équipe.
Una situazione simile è capitata in un’altra scuola, ad una bambina con una grave forma di epilessia farmaco resistente. Per poter intervenire nel più breve tempo possibile in caso di crisi, i genitori hanno scelto di trovare un lavoro nei pressi della scuola frequentata dalla figlia.
Eppure, anche in queste situazioni, emergono elementi di ricchezza che si fanno largo a gomitate tra i mille problemi. I bambini di cui ho accennato la storia sono contenti di andare a scuola, si appassionano quando vengono coinvolti in attività nuove e per loro stimolanti.
I loro compagni di classe hanno imparato a gestire le situazioni di crisi comportamentali e gli attacchi epilettici, tanto che a volte sono loro stessi a dare dei consigli a qualche supplente che non sa cosa fare in quei frangenti.
Per i compagni di classe, quindi, la costante esposizione a situazioni problematiche non sembra aver creato disagio ma, al contrario, ha prodotto la capacità di affrontarle. Diventeranno adulti più “inclusivi”? Non lo so, di sicuro avranno maggiori capacità di adattamento all’imprevisto.
E’ stato dimostrato che nelle classi multiculturali, come lo sono sempre più le nostre classi delle scuole pubbliche, gli alunni acquisiscono maggiori capacità nella Teoria della Mente, cioè nella capacità di mettersi nei panni degli altri e di comprendere il punto di vista altrui. Probabilmente non avranno svolto tutto il programma scolastico (motivo per cui alcune famiglie preferiscono iscrivere i figli alle scuole private), ma saranno cittadini secondo me più ricchi dal punto di vista delle capacità relazionali anche perché cresciuti in ambienti sicuramente non facili, ma almeno più collaborativi e molto meno competitivi.
Dott. Alessandro Ghezzo, Medico specialista in Neuropsichiatria infantile presso il Centro Terapeutico dell’Antoniano
La povertà secondo un artista
Ci sono tantissimi tipi di povertà, non solo quella economica. E spesso povertà è anche sinonimo di paura.
Dente, cantautore
La povertà raccontata dagli operatori e dalle operatrici sociali

La povertà abbraccia molte dimensioni della vita umana: può rendere difficile o impossibile soddisfare i bisogni primari – come avere un pasto e un tetto sicuro sopra la testa – ma si concretizza anche in altre situazioni meno visibili e più sfaccettate.